APPROFONDIMENTO
(mi-lorenteggio.com) Milano, 30 novembre 2020 – Cinquanta anni fa (esattamente l’ 1/12/1970) veniva approvata in Italia la Legge sul divorzio che porta la firma del deputato liberale Antonio Baslini, insieme al socialista Loris Fortuna, l’altro firmatario.
Una battaglia di civiltà dell’Italia laica e liberale, già proposta dai liberali a inizio novecento, ma rimasta in sospeso per la durissima opposizione della Chiesa, che ne aveva fatto condizione dirimente in occasione del patto Giolitti – Gentiloni.
Il 7 ottobre 1968 il liberale Antonio Baslini presenta un progetto di Legge sul divorzio, che in Commissione parlamentare verrà unificata al progetto del socialista Loris Fortuna. La Legge Baslini-Fortuna ottiene alla Camera, nella prima votazione del novembre 1969 a scrutinio segreto, 325 voti favorevoli e 283 contrari (DC e MSI).
La discussione passa al Senato che vota il 9 ottobre 1970 un testo emendato con l’obbligo del tentativo di conciliazione e l’innalzamento da cinque a sette anni del periodo di separazione, approvandolo con 164 voti favorevoli e 150 contrari.
Il testo emendato ritorna alla Camera che, nella seduta più lunga del parlamento – dal 24 novembre al 1 dicembre 1970 – approva in via definitiva la legge Baslini-Fortuna (319 sì e 286 no) a cinque anni dalla sua prima proposizione e dopo un iter parlamentare lungo, difficile e conflittuale.
IL DIBATTITO PUBBLICO: LA STAMPA, I PARTITI, IL MOVIMENTO DELLE DONNE
Fin dall’inizio dell’iter parlamentare del Progetto di Legge si accende nel paese uno scontro incandescente fra il fronte clericale antidivorzista e quello laico divorzista, un dibattito così aspro che si protrarrà per dieci anni, senza esclusione di colpi, di mezzi e forze in campo.
Per il divorzio parte subito la mobilitazione della stampa laica: il popolare settimanale milanese “ABC” inizia una campagna di sostegno al progetto di Legge Baslini-Fortuna.
Sul giornale la rubrica dedicata ai comportamenti sessuali degli italiani, curata da Renata Pisu, che si firma con lo pseudonimo di Cristina Leed, è molto seguita e prontamente lancia una raccolta di apposite cartoline prestampate e allegate al giornale, da compilare e spedire alla Camera dei Deputati. In poche settimane ne arrivano 30.000
Anche il Partito Liberale e il Partito Radicale si mobilitano e organizzano a Roma un dibattito pubblico al quale partecipano, fra gli altri, la comunista Luciana Castellina, il democristiano Giovanni Migliori e i proponenti Antonio Baslini e Loris Fortuna.
Si determina un confronto duro e serrato, in cui emergono nettamente le posizioni dei maggiori partiti: l’intransigenza della DC (Migliori), il favore dei laici PLI, PSDI e PSI, il tatticismo del PCI (Castellina) che non assume ancora una posizione a favore del divorzio, ma sostiene una posizione più sfumata per una generica riforma del Diritto di Famiglia (che poi invece potrà essere approvata proprio sull’onda del successo del referendum).
Solo molto dopo l’approvazione della Legge, e già in piena campagna referendaria, quando alcuni sondaggi daranno vincenti i laici, il PCI cesserà di considerare il divorzio un inutile tema borghese, e obtorto collo aderirà. In questa fase è solo il settimanale “Noi Donne” dell’UDI a sostenere la battaglia per il divorzio, prendendo le distanze dalla dirigenza del PCI, titubante.
È proprio la vasta eco che questo dibattito ha sulla stampa nazionale a dare il via alla battaglia culturale e politica pro o contro il divorzio, una battaglia virulenta che coinvolgerà la sfera privata di milioni di persone, irrompendo sulla scena politica e pubblica e assumendo per alcuni protagonisti i toni di una “crociata”.
VERSO IL REFERENDUM
Il 31 agosto 1968 il governo Leone si era fatto promotore di un disegno di Legge che, sulla base dell’art. 75 della Costituzione, consentiva di indire referendum abrogativi totali o parziali rispetto ad una Legge dello Stato. Proposta che diventerà legge dello stato il 25 maggio del 1970.
Subito dopo l’approvazione della Legge Baslini-Fortuna, si mette in moto contro il divorzio la macchina clericale per il referendum abrogativo, infatti il quotidiano della CEI e della Curia milanese “Avvenire” pubblica già il 2 dicembre un appello per indire immediatamente quel referendum che deve spazzare via la legge sul divorzio. L’obiettivo immediato è la raccolta delle 500.00 firme necessarie alla promozione del referendum abrogativo sul divorzio.
Raccolsero attraverso le parrocchie quasi un milione e mezzo di firme; una quantità enorme che li convinse che la cultura cattolica fosse così radicata e diffusa da respingere quella che, nei comizi e nei pubblici dibattiti, presentavano come una catastrofe assoluta della famiglia: il divorzio e la possibilità di cessazione degli effetti civili del matrimonio, considerato indissolubile nonché unico pilastro della società.
LA CAMPAGNA REFERENDARIA: GLI SCHIERAMENTI POLITICI PRO E CONTRO IL DIVORZIO
La campagna referendaria è scandita da anni di durissima battaglia politica e culturale – contro o a favore del divorzio – col coinvolgimento di tutti i partiti di allora, di tutte le componenti della società civile e di quasi tutti gli organi di stampa, i principali quotidiani nazionali e locali e anche i periodici più differenti fra loro (dalle testate emblema del laicismo come “l’Espresso” a quelle più inusuali a simili battaglie come “ABC”) sino alle riviste femminili più diffuse come “Amica”, “Annabella” e persino “Grand Hotel”, il più famoso dei fotoromanzi.
La crociata antidivorzista è lo specchio di un sistema sociale e politico stretto fra due fuochi: il fiume in piena della società moderna che avanza e il tentativo di sbarrargli la strada. «Non furono certo senza conseguenze i decisi pronunciamenti del pontefice e di vari settori del cattolicesimo tradizionale ma non era più prevalente l’Italia cui si era appellato il Comitato fondato da Gabrio Lombardi, per il quale il divorzio era «una variante dell’harem diluita negli anni». A quell’Italia cercarono di appellarsi i due partiti schierati per l’abrogazione, il MSI di Almirante e la Dc guidata da Amintore Fanfani.
VOCI DI DISSENSO NEI DUE SCHIERAMENTI
Tuttavia il mondo cattolico non era tutto compatto e appiattito sul fronte del SI, cioè contro il divorzio: c’era l’impegno dei “Cattolici per il NO” con interventi di figure di rilievo e, nell’imminenza del referendum, compare persino un documento del Consiglio Nazionale dell’Azione Cattolica favorevole al divorzio, immediatamente censurato e ritirato a seguito di un’azione decisa dalla Conferenza Episcopale.
Nemmeno il fronte a sostegno del NO, cioè per il mantenimento della legge sul divorzio, era però monolitico e compatto. Il problema principale del PCI era evitare il referendum; ancora nel 1964 Togliatti esprimeva contrarietà all’assunzione del tema del divorzio come “battaglia politica” perché troppo avanzato per l’Italia. Il PCI, pur avendo votato la legge, tentennava e tentò, fino all’ultimo, di evitare il referendum, anche a rischio di modifiche, in senso restrittivo e dunque peggiorativo, della Legge approvata.
La dirigenza del PCI fu costretta a prendere posizione per il No proprio dalle donne, dopo anni di discussioni e divisioni.
Si potrebbe spiegare questa iniziale reticenza del PCI con l’ideologia del partito, intrinsecamente diffidente verso i diritti individuali e di libertà, ma gran parte della dirigenza era convinta di dover scendere ad un compromesso con la Dc per poter scongiurare il referendum.
Così negli schieramenti a favore dell’abrogazione restavano alleati la DC e il MSI; mentre sul fronte opposto quasi tutti i partiti laici, socialisti, radicali e repubblicani, liberali e socialdemocratici, che sostenevano la necessità di fondare il matrimonio non sulla costrizione o la fedeltà, ma sulla libertà reciproca dei coniugi e sulla possibilità di scelta e di (eventuale) scissione. Fondamentale però risultò l’apporto dei movimenti femministi con molte donne comuniste le quali, nel corso di quella battaglia, conquistarono anche un’autonomia culturale e politica dalle dirigenze e dagli apparati di partiti, acquisendo forza ed indipendenza.
12 MAGGIO 1974, IL REFERENDUM HA UN ESITO SORPRENDENTE
È la notte del 12 maggio 1974 e si fa festa in tutta Italia.
È un fatto tutto italiano, un fatto interno, di costume, ma che per il Paese ha significato una vera svolta.
È una data storica per l’Italia perché è la vittoria dei diritti civili ottenuta col diretto contributo dei cittadini e delle cittadine che hanno detto No col 59,26 per cento alla proposta di abrogare la Legge approvata dal Parlamento italiano (in vigore dal 3 dicembre 1970) che regola “i casi di scioglimento” del matrimonio, ribattezzata la Legge sul Divorzio.
Perché una data storica?
Perché quel risultato nettamente a favore del mantenimento del divorzio (19.383.0000 voti, pari appunto al 59,26 per cento dei votanti) fu una vittoria clamorosa che rivelò un’Italia divisa, anche se in maniera meno traumatica rispetto al referendum fra monarchia e repubblica del 2 giugno 1946: con il NO in vantaggio al Nord (ad eccezione del Veneto) e alle isole, Sicilia e Sardegna, e il SI vincente al Sud (le posizioni contrarie al divorzio prevalgono di poco in Campania, Puglia e Calabria) e la spaccatura dell’unità politica del mondo cattolico.
La vittoria del no al referendum sul divorzio nel 1974 fu segno di grande coraggio perché non avvenne che i “No” degli uomini fossero bilanciati dai “Sì“ delle donne.
Anche se non si potevano distinguere i voti fra maschi e femmine, tuttavia dove i No toccarono punte elevate, era evidente che la maggioranza delle donne avesse votato “No.”
Le donne dunque scelsero di poter esercitare quel diritto, di rompere il legame coniugale, a prescindere dalle conseguenze sociali che potevano essere ipotizzate o temute.
Al contrario, riaffermarono il diritto di scelta che nobilitava la sincerità della coscienza e dei sentimenti dimostrando l’immoralità della doppiezza e dell’ipocrisia familiare.
LA MOBILITAZIONE DELLA SOCIETÀ CIVILE E DELLE DONNE
La mobilitazione della cosiddetta società civile, proprio grazie al forte contributo delle donne, aveva di gran lunga superato e travalicato reticenze, steccati, riserve sia di mentalità che di appartenenza politica, e dunque trasversali, facendo alla fine prevalere principi e valori sostanziali, come il valore dei sentimenti contro l’ambiguità e il quieto vivere, ma soprattutto facendo registrare una vittoria della coscienza civile e dell’emancipazione femminile, anche a costo degli alti prezzi che le donne poi saranno costrette a pagare in termini di precarietà economica, sociale e lavorativa e in termini di disagio, difficoltà esistenziale e parentale, di pregiudizi e discriminazioni sociali quando affronteranno il divorzio da sole o insieme ai figli.
Il diritto di sciogliere il matrimonio mostrava poi un cambiamento profondo di mentalità e costumi che avrebbe determinato un forte impatto anche su tutte le forme di unione e associazione.
Metteva in luce anche l’enorme divario esistente nella società italiana fra i diritti fondamentali dichiarati e le troppe leggi risalenti al periodo e fascista ancora in vigore. Infatti, nel nostro paese ancora nel 1970, nonostante la possibilità di divorziare, era legittimato il delitto d’onore per la cui abrogazione si dovrà attendere il 1981.
Una norma arcaica, tipica di una società retriva e maschilista che proponeva pene attenuate per l’uomo che uccideva in flagrante adulterio la moglie o l’amante o entrambi, in quanto colpevoli di aver “disonorato” la famiglia e l’uomo stesso, legittimo consorte e tutore dell’onore.
ANALISI DEI RISULTATI: IL SIGNIFICATO DEL REFERENDUM
A distanza di anni nella battaglia per il divorzio si può vedere una svolta epocale per tante ragioni, fra cui quella di essere stata l’incubazione e la prima forte manifestazione di cambiamenti profondi nelle culture, nelle mobilitazioni delle masse, nei comportamenti degli italiani.
Cambiamenti e processi in atto, anche sotterranei, che sarebbero di lì a poco, soprattutto negli anni Ottanta e Novanta, diventati più evidenti e manifesti.
Ad esempio, il fatto che sull’esito del referendum avevano influito maggiormente, nella scelta delle persone, delle forti ragioni etiche e civili piuttosto che quelle ideologiche o le indicazioni dei partiti.
Un dato poi era evidente: le trasformazioni del paese reale erano più avanzate e moderne, nelle pratiche quotidiane e nei quadri mentali, della capacità di lettura e di analisi della realtà espresse dai partiti tradizionali, dai loro apparati, dall’immaginario asfittico, bigotto e anodino che molti esponenti politici cullavano ancora come solide certezze di fronte ai rapidi e tumultuosi cambiamenti sociali impressi dall’industrializzazione e dalla modernità.
Per la prima volta nell’Italia repubblicana i partiti avevano stretto alleanze non in funzione di una lotta politica, ma sulla base dei principi che orientavano le scelte individuali sul piano dei diritti civili ed era evidente che molti cattolici avevano votato come i partiti laici.
Tutto questo significava una trasformazione profonda della società italiana con una vistosa laicizzazione dei costumi e dei comportamenti, sia per l’evidente indebolirsi dell’influenza della Chiesa sui costumi degli italiani che per l’attenuarsi nelle loro scelte politiche dello scontro ideologico della guerra fredda e del bipolarismo post-bellico.
L’indomani del referendum, possiamo affermare con Crainz: «Differenti processi vengono dunque alla luce, contribuendo ad erodere la credibilità della classe politica sin lì al governo: in questo quadro il referendum sul divorzio del 1974 – con la sconfitta di una vecchissima Dc, puntellata dal Msi di Almirante – sembrò aprire una stagione nuova.
Non solo sul terreno che le era proprio: e su esso venne l’approvazione di un diritto di famiglia finalmente civile e poi la regolamentazione dell’aborto (che pose termine alla vergogna dell’aborto clandestino).
Si innestò qui, anche, l’affermarsi e il dilagare del movimento femminista, la novità più feconda degli anni Settanta»